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Quel che resta… I libri a cura di Demetrio Paolin

Ogni mese, Demetrio Paolin proverà a ragionare su tre pubblicazioni di autori italiani, cercando nei limiti della recensione di restituire ai lettori un’idea del testo e della loro complessità.

Novità editoriali del mese di Novembre 2020:

 sarchi il dono di antonia

ALESSANDRA SARCHI, Il dono di Antonia (Einaudi), pp. 208

Con la sua nuova prova narrativa la Sarchi, già nella cinquina del Campiello nel 2017, si conferma una delle voci più originali e mature della nostra narrativa. In questo romanzo, poi, scioglie ancora di più il suo stile, soprattutto nei dialoghi, dove soffriva di una certa rigidità, che Il dono di Antonia non possiede per nulla. Per quanto riguarda la trama rimando il lettore a questo link (https://www.einaudi.it/catalogo-libri/narrativa-italiana/narrativa-italiana-contemporanea/il-dono-di-antonia-alessandra-sarchi-9788806244996/) così che possa farsene una idea precisa; interessa, invece, in questa sede ragionare su una certa ricezione del testo che è stato letto come una riflessione sulla maternità.

Ora non si può negare che a prima lettura questo sia il centro più visibile del romanzo, quello su cui ogni lettore affina le sue lenti, ma circoscrivere la narrazione alla semplice meditazione sull’essere madri – o più latamente genitori – significherebbe ridurre la scrittura e l’invenzione de Il dono di Antonia a una sorta di “sottogenere” fluido – ancorché non stabilito da contorni certi – afferente a “romanzi in cui padri e madri parlano del loro essere padri e madri”. Se il testo della Sarchi fosse questo, pur se scritto con grande maestria e stile, un piccolo campione potrebbe essere la descrizione della nuotata che la protagonista compie proprio nel capitolo iniziale (pp. 8-10), sarebbe un’ occasione sprecata, ma il romanzo si configura come una riflessione ben più complessa; ed è lo stesso titolo dell’opera che ci viene in soccorso.

Cosa è un dono? Che relazione intercorre tra chi dona e chi riceve? In che modo entrambe entrano in relazione con l’eventuale oggetto donato? E come si modificano tutte queste relazioni nel caso in cui l’oggetto donato è un essere vivente, o meglio la possibilità di un essere vivente? Letto in tale prospettiva Il dono di Antonia acquista un valore speculativo più ambiguo e inquietante, e pone il lettore in una situazione di difficile immedesimazione. Ogni romanzo trova la sua ragione di essere nella volontà di immedesimazione, e porre dei limiti a quest’ultima rende la sua recezione non semplice: il che nuovamente si risolve nello stile della Sarchi che ci appare controllato, freddo, volutamente rigoroso e ferreo nel suo smontare ogni eventuale episodio “compassionevole” o “emozionale”. Di conseguenza la protagonista ci appare così, mirabilmente capace di fermarsi un attimo prima di diventare patetica: a tal proposito si leggano le pagine finali del libro, la chiusa volutamente dimessa, ma anche l’intera Parte 4 del romanzo, soprattutto p. 137 e seguenti, in cui assistiamo al dialogo tra Antonia e Jessie, pagine nelle quali appunto e abilmente Sarchi nasconde il commovente, dietro una lingua che non indugia nel patetico, ma che si produce in un recupero di memoria che sia il più possibile vicino al referto che al racconto lacrimevole. Questo pudore del discorso è dovuto al fatto che il dono è un evento intimo, privato e singolare, perché in primo luogo definisce chi dona. È un modo di dire l’io, per definirsi nei confronti del mondo. Antonia ha un segreto, che custodisce dentro di sé, di cui non ha parlato con nessuno, un segreto che sta minando i rapporti con la figlia, che produce una discrasia tra la sua vita intima e quella che conduce nella società; una vita quest’ultima che pare essere dettata da una ricerca esasperata della natura, della concretezza, del ritorno alle origini (la vita degli animali, la cura per i campi, l’aria aperta, l’idea di essere biologicamente responsabili), ma che appunto è erosa al suo interno da un segreto, che filtra tra le crepe dell’esistenza e ha le fattezze del figlio della sua amica universitaria, venuto a chiedere ragione della sua esistenza e del modo in cui è venuto al mondo.

Qui sta la novità del romanzo nello scambio di un dono, cosa sente ciò che è donato?, quale è il suo destino?, in che modo ciò che è donato acquista esistenza? Jessie rappresenta il dono, che – sembra suggerire la Sarchi – non condivide nulla, se non in minima parte, con chi lo riceve e con chi lo dà: il dono ha una sua esistenza propria; una esistenza che si afferma nella gratuità.
Jessie incarna, quindi, la gratuità della vita, il suo esserci nonostante ogni cosa; per Antonia Jessie decreta la possibilità di poter “parlare di sé” (p. 10) e di poter avere “una nuova percezione del pavimento, del corrimano, dei muri, come se stesse ancora sognando quel sogno che non era un vero sogno” (p.193). E da questo sogno dentro un non-sogno deriva quella precisa sensazione di angoscia che pervade i diversi personaggi del romanzo; l’essere gratuito è un essere libero. Come ricorda Kierkegaard l’angoscia è la vertigine della libertà, che è – infine – il dono della Sarchi, tramite la scrittura, a ognuno di noi.

 

 macioci tommaso

 ENRICO MACIOCI, Tommaso e l’algebra del destino (SEM), pp. 200

Il nuovo romanzo di Enrico Macioci è un congegno letterario perfetto e oliato: una storia che riesce a intrattenere il lettore e a renderlo partecipe fino all’ultima pagina, a portarlo a desiderare lo scioglimento della storia, lasciandolo con una giusta dose di inquietudine e di paura. Anche in questo caso per quanto riguarda il discorso della trama rinvio a questa pagina (https://www.semlibri.com/book/tommaso-e-lalgebra-del-destino/), anche per non togliere al lettore il piacere della lettura, calibrato grazie a una sorta di dilazione, di rallentamento voluto quando s’arriva ai nodi centrali della storia.

Fermiamoci ora ad analizzare due termini che abbiamo utilizzato: “intrattenere” e “dilazione”. Entrambi questi temi suonano ambigui, se non negativi, alle orecchie di un certo lettore: se dicessi che la letteratura è intrattenimento, molti penserebbero al romanzo di Macioci come un testo “facile” o come un testo di “genere”, essendo appunto una parola spesso utilizzata come sinonimo di “mediocre”, “semplicistico”, “scontato”. In realtà dire che il romanzo è intrattenimento significa nel caso di Macioci qualcosa di molto più complesso, che prevede quindi una risistemazione e risemantizzazione del termine.
Intrattenere significa tenere dentro di sé, ma anche indugiare, se assumiamo questo significato come principale l’intrattenimento si configura come una malia, una capacità da parte di Macioci di tenere il lettore dentro la storia, che richiede al lettore una forte dose di sospensione di incredulità. La vicenda di Tommaso, dei suoi genitori e della ridda di personaggi che intervengono in maniera più o meno ampia all’interno del romanzo, con brevi apparizioni o protagonisti di capitoli, ci trattiene dentro le sue spire proprio perché lo scrittore aquilano è capace di dosare le notizie e di dilazionare lo scioglimento della trama nelle scene, di spostare sempre un po’ più avanti la soluzione o il cambio di scenario; l’autore è abile nel montare le sequenze narrative spostando di volta in volta il fuoco del racconto.

Una delle strutture più utilizzate in un romanzo è la sospensione: in questo senso le peripezie e le azioni – che si susseguono in Tommaso e l’algebra del destino – avvengono secondo una logica e non è tanto una logica temporale quanto concettuale, anzi a voler essere sinceri quella che domina il romanzo di Macioci è una logica orale. Si ha l’impressione che Tommaso e l’algebra del destino sia stato scritto per essere letto a voce alta, che quindi Macioci riprenda l’immagine del narratore come colui che davanti a un fuoco allieta e spaventa le notti dei suoi ascoltatori. Il romanzo per Macioci non è tanto mimesi, ritratto, tentativo di riproduzione della realtà, non è neppure scansione diacronica del racconto, ma sospensione della temporalità: un sempre presente che piega il tempo a proprio piacimento. Macioci, per esplicitare questa necessità narrativa del rapporto “tra vita percepita e tempo”, elegge una narrazione in terza personale onnisciente, usata con molta sapienza, proprio perché è compito del narratore mostrare come tutto ciò che accade sia in qualche modo relato e correlato.

Alcune volte le scelte del destino, questo piegarsi degli eventi a una sorta di universo algebrico euclideo denunciato fin dal titolo, sono fin troppo patenti, ma nel complesso risultano necessarie, perché concedono al lettore questa “illusione” che la storia abbia una sua logica, e che sia l’unica possibile. Questo avviene perché Macioci utilizza analessi e prolessi con equilibrio, blocca a suo piacimento un momento narrativo pieno di tensione per mostrarci altro, depista la nostra attenzione e la riguadagna. Chiara è la matrice ottocentesca di questo tipo di narrazione, Macioci – già in altri libri – aveva mostrato la sua predilezione per un certo tipo di narrativa (pensiamo alla centralità di Stevenson nella Lettera d’amore a uno Yeti) ottocentesca, mediata dall’influsso kinghiano. Il congegno narrativo ha forse un piccolo giro a vuoto nel finale con la virata soprannaturale, o meglio che lascia aperta una possibile lettura soprannaturale, è forse il punto meno convincente del romanzo e forse quello dove Macioci paga pegno ai suoi autori di riferimento. Mentre Tommaso e l’algebra del destino avrebbe funzionato benissimo, conquistando e convincendo il lettore, anche senza il ricorso al dato “magico” comune a Macioci e all’autore di It. Nonostante questo, Tommaso e l’algebra del destino conferma la compiuta maturità stilistica di Enrico Macioci uno degli autori italiani più interessanti.

 chiuchi esecuzione

 LORENZO CHIUCHIÙ, Esecuzione dell’ultimo giorno (Aguaplano), pp. 64

L’impressione leggendo Esecuzione dell’ultimo giorno (https://www.aguaplano.eu/scheda/Esecuzione-dellultimo-giorno-132) di Lorenzo Chiuchiù è di avere tra le mani uno scritto del primo novecento, uscito dalla penna di autori vociani: uno scritto di prosa dell’arte, in cui la lingua, o meglio ancora, l’accordatura della lingua sia percepita come fondamentale rispetto alla storia che viene raccontata. Per quanto riguarda quest’ultima, l’autore prende a pretesto la vita sfortunata, inquieta e geniale di Skrjabin e della sua opera musicale rimasta incompiuta intitolata Misteryum e su questa vita costruisce una variazione in cui il dato biografico e artistico dell’opera di Skrjabin viene modulato totalmente nuovo da parte dello scrittore. A colpire come prima cosa è appunto l’andamento del romanzo, anche se a rigor di logica potremmo definirlo più giustamente novella o un racconto lungo, lo sviluppo è rapsodico, non esiste un vero fulcro di trama, non esiste una concatenazione logico-narrativa tra le scene, ma a tenere insieme la struttura narrativa c’è un disegno musicale, che muove lo scrittore tra temi che si riprendono e si ampliano e si concentrano. La scrittura e le scelte lessicali sono preziose, una lingua mai scialba o opaca, ma anzi che fa di un certo splendore la sua cifra: “Ho deciso la mia ascesi inflessibile. Il mondo sprofonderà. Il nulla sarà un inverno purissimo, una gemma caustica ingoierà tutto, un fiore magnetico compirà il miracolo dell’annientamento” (p.7); “una notte mi distesi sul materasso e fui invaso da una specie di quiete. Chiusi gli occhi e sognai di risorgere dalla mia tomba, di spalancare l’abisso e di respirare un nuovo ossigeno. Mi sedevo sulla mia bara – viola, primavere in disfacimento, la schiena che si piegava, i muscoli e i tendini che ritornavano all’organico” (p.28).

Esecuzione dell’ultimo giorno è, come abbiamo visto, il resoconto finzionale di un’opera incompiuta, dove dominare è la voce del protagonista: il romanzo è una prima persona, la cui caratteristica principale è quella del parossismo epigono di alcuni tipici personaggi dostoevskiani e certi movimenti del romanzo di Chiuchiù ricordano molto Memorie dal sottosuolo; ne sono esempi il breve idillio amoroso con la ragazza, i susseguirsi di stati di veglia e delirio, una certa concettosità nel parlare, ma su tutti o che meglio ciò che tutti li contiene è questo delirio febbrile che si deposita come una patina lungo tutte le vicende del testo. L’elevato tasso di letterarietà di Esecuzione dell’ultimo giorno è paradossalmente il punto in cui la costruzione del racconto mostra qualche pecca, certe volte sia l’impressione di una certa esibizione e sfoggio, a discapito della tensione del racconto, sono brevi momenti e movimenti dello stile, che però non inficiano la resa magistrale di altre parti del romanzo, che rappresenta una vera sorpresa nel nostro panorama narrativo.

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